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Lombardia motore attivo contro il diversity washing e a favore dell’inclusione

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Il fenomeno del diversity washing consiste nella creazione da parte delle aziende di campagne advertising e attività a supporto dei temi legati alla diversity and inclusion senza che vi sia un reale interesse o rispetto per tali argomenti, e rischia di diventare il nuovo greenwashing.

La decisione di indagare questo argomento nasce dalla volontà di comprendere se sia possibile catalogare il diversity washing come una pratica scorretta, idonea a falsare il giudizio dei consumatori e a rompere l’equilibrio della libertà e correttezza della concorrenza. Per questo motivo, l’analisi del fenomeno dal punto di vista giuridico è volta non solo a tentare di descrivere e circoscrivere tale pratica rispetto alla moltitudine delle tecniche di marketing impiegate al giorno d’oggi, ma anche a compiere un ulteriore passo in avanti e comprendere se sia possibile avvalersi degli strumenti di tutela previsti dalla normativa italiana vigente in materia di greenwashing per condannare questa tipologia di pratiche.

La disciplina giuridica al momento non cita chiaramente il diversity washing tra gli atti illeciti; per tale motivo, si è cercato di applicare i principi base della normativa pubblicitaria e concorrenziale per comprendere se vi siano i presupposti per formulare un’ipotesi di sanzione da parte degli organi giudiziari e amministrativi. Aziende più attente ai temi dell’inclusione e impegnate ad arginare il “diversity washing”: adottano politiche per migliorare le condizioni di lavoro, aumentano lo sforzo di comunicare i risultati all’interno dell’impresa, ma prima di comunicarli all’esterno cercano di ottenere “certificazioni” e di consolidare le buone pratiche per evitare l’accusa di avere intrapreso “azioni di facciata” solo d’apparenza. È quanto emerso dall’ultima ricerca del Centre for Employee Relations and Communication (Cerc) dell’università IULM.

“I temi della diversità, dell’equità e dell’inclusione stanno crescendo di importanza sulla spinta di cambiamenti socio-demografici e di iniziative esemplari di aziende multinazionali. Abbiamo cercato di analizzare lo stato dell’arte nelle aziende italiane e il ruolo della comunicazione” ha dichiarato Silvia Ravazzani, direttrice scientifica della ricerca Cerc. Alla base due studi, il primo che ha raccolto 103 questionari – e il secondo che ha coinvolto 13 aziende, dieci delle quali con sede nella regione Lombardia. Emerge che le aziende impegnate da più lungo tempo sul tema, anche prima del 2014, sono di origine straniera; le aziende con sede in Lombardia di origine italiana hanno iniziato a occuparsene dal 2016.

Il 73% del campione (75 aziende delle 103 coinvolte nella prima indagine) si è “già impegnato attivamente”. L’impegno risulta incentivato in primo luogo da fattori interni, come la sensibilità diffusa in azienda (media di 4,10 su una scala da 1 a 5) e la crescente diversità interna (3,94), e quindi da fattori esterni, quali le attese di comportamenti responsabili da parte delle aziende (3,89) e gli obiettivi dell’Agenda fino al 2030 (3,71).

Le aziende lombarde hanno focalizzato l’attenzione, in particolare, su genere e genitorialità (con estensione dei congedi, lavoro da remoto e flessibilità dell’orario di lavoro). Seguono le dimensioni legate a generazione, fondo culturale, abilità fisiche e mentali e orientamento sessuale. In tutte le aziende lombarde coinvolte il Cerc ha rilevato la presenza di una figura o di una struttura con responsabilità sui temi della diversità, equità e inclusione, spesso inserita all’interno delle risorse umane. La comunicazione esterna appare meno utilizzata rispetto alla comunicazione interna: lo sforzo verso l’esterno è dedicato a certificare quindi i risultati ottenuti, con lo scopo di evitare possibili accuse di “diversity washing”, ossia di falsa apparenza.

Notevole. 

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